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Cantico dei Drogati




L'apertura è con il "Cantico Dei Drogati", che sembra fare il verso al Cantico delle Creature di San Francesco. A morire per primi sono i drogati, i tossici in generale e, nel caso di De André, gli alcolisti: è un testo meraviglioso, composto insieme al poeta libertario Riccardo Mannerini rimaneggiando la poesia "Eroina" di quest'ultimo, poeta e amico di De André.

«Riccardo Mannerini era un altro mio grande amico. Era quasi cieco perché quando navigava su una nave dei Costa una caldaia gli era esplosa in faccia. È morto suicida, molti anni dopo, senza mai ricevere alcun indennizzo. Ha avuto brutte storie con la giustizia perché era un autentico libertario, e così quando qualche ricercato bussava alla sua porta lui lo nascondeva in casa sua. E magari gli curava le ferite e gli estraeva i proiettili che aveva in corpo. Abbiamo scritto insieme il Cantico dei Drogati, che per me, che ero totalmente dipendente dall'alcool, ebbe un valore liberatorio, catartico. Però il testo non mi spaventava, anzi, ne ero compiaciuto. È una reazione frequente tra i drogati quella di compiacersi del fatto di drogarsi. Io mi compiacevo di bere, anche perché grazie all'alcool la fantasia viaggiava sbrigliatissima. Mannerini mi ha insegnato che essere intelligenti non significa tanto accumulare nozioni, quanto selezionarle una volta accumulate, cercando di separare quelle utili da quelle disutili. Questa capacità di analisi, di osservazione, praticamente l'ho imparata da lui. Mi ha anche influenzato a livello politico, rafforzando delle idee che già avevo. sicuramente è stata una delle figure più importanti della mia vita.»

Ho licenziato Dio gettato via un amore 
per costruirmi il vuoto nell'anima e nel cuore
Le parole che dico non han più forma né accento, 
si trasformano i suoni in un sordo lamento 
Mentre fra gli altri nudi io striscio verso un fuoco 
che illumina i fantasmi
di questo osceno giuoco
Come potrò dire a mia madre che ho paura?

come tutte le dipendenze, è sempre un problema di affetto: di amore non ricevuto, di vuoto nell'anima e nel cuore, che viene quindi da dentro, che si tenta di riempire con qualche sostanza da fuori. Ma come posso dire a mia madre, che dovrebbe essere colei che ci riempe d'affetto, che è solo paura e solitudine?

Chi mi riparlerà di domani luminosi, 
dove i muti canteranno e taceranno i noiosi?
Quando riascolterò il vento tra le foglie 
sussurrare i silenzi che la sera raccoglie? 
Io che non vedo più che folletti di vetro 
che mi spiano davanti che mi ridono dietro.
Come potrò dire a mia madre che ho paura?

chi mi racconterà le favole e un mondo meraviglioso? quando potrò essere felice io che sono un tossico? in questo verso possiamo notare quanto pesasse a De André la sua condizione di dipendenza dall'alcol. in quel periodo infatti l'autore era a tutti gli effetti un tossicodipendente e in questo testo ci sta parlando delle classica paranoia dell'alcolista, spiato e deriso. Ed inesorabilmente solo nella sua condizione da marginato sociale.

Perché non hanno fatto delle grandi pattumiere 
per i giorni già usati, per queste ed altre sere. 
E chi, chi sarà mai il buttafuori del sole 
chi lo spinge ogni giorno sulla scena alle prime ore. 
E soprattutto chi e perché mi ha messo al mondo 
dove vivo la mia morte con un anticipo tremendo? 
Come potrò dire a mia madre che ho paura?

tutto la desolazione esce fuori con la voglia di non vivere: giorni già usati, sempre uguali a loro stessi nella ricerca della sostanza di cui si è dipendenti. Senza un motivo per alzarsi la mattina: chi si prende la briga di tirar fuori tutte le mattine il sole?

Quando scadrà l'affitto di questo corpo idiota 
allora avrò il mio premio come una buona nota. 
Mi citeran di monito a chi crede sia bello 
giocherellare a palla con il proprio cervello. 
Cercando di lanciarlo oltre il confine stabilito 
che qualcuno ha tracciato ai bordi dell'infinito.
Come potrò dire a mia madre che ho paura?

Quando sarò morto avrò allora la mia unica nota positiva, per il resto del mondo. Servirò infatti ai benpensanti  che mi hanno emarginato come esempio da evitare a chiunque crede sia bello spappolarsi il cervello (con qualche sostanza) nell'illusione di varcare i limiti, di aprire le porte della percezione.

Tu che m'ascolti insegnami un alfabeto che sia 
differente da quello della mia vigliaccheria.

In quest'ultimo verso il cantautore si rivolge direttamente all'ascoltatore: sono caduto in questo vortice, compiaciuto e coscientemente colpevole. Avevo solo paura e sono fuggito dai sentimenti che erano solo dolore, attenuandoli con una dipendenza. Dimmelo tu cosa avrei potuto fare di diverso.

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il mio romanzo

Una vita e mezza
Una Vita e Mezza è un libro che parla soprattutto dell’assenza. O meglio della ricerca, tanto demotivata quanto inconsapevole, di come si può costruire una ciambella salvagente intorno a quel buco che ti si crea dentro quando perdi una persona. Cosicché quel buco, che risucchiava tutto il presente privandolo di senso, possa trasformarsi nel nostro galleggiante. E addirittura salvarci, traghettandoci verso il futuro.
È la storia di un viaggio, metaforico quanto reale, di un ragazzo che è stufo del suo galleggiare, ma che non sa dare una scossa alla propria esistenza. Così parte fidandosi e affidandosi al suo amico, sperando che qualcosa di imprevisto lo colga per assaporare un po’ di brivido della vita.
Riuscirà a trasformare il suo futuro innamorandosene anziché rimanendone schiacciato e afflitto?
Se c’è un’intenzione mirata in tutto ciò, è la creazione del neologismo che indica il dolore per il futuro mancante, la mellontalgia. In contrapposizione con la nostalgia, che indica l’afflizione per il ritorno a casa (nostos), per il passato, per l’infanzia, questa è l’afflizione per to mellon cioè l’avvenire o le cose future, in greco antico. Vuole indicare un dolore attribuito al futuro negato e non vissuto. A ciò che poteva essere e invece non sarà mai. Chissà se se ne sentiva la mancanza.