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1968: Tutti Morimmo a Stento



In queste undici tracce Fabrizio De André raggiunge per la prima volta la sua apoteosi. Pubblicato con il sottotitolo di "Cantata in si minore per solo, coro e orchestra", "Tutti Morimmo A Stento" parla della morte, in tutte le sue forme, in soli 33 minuti e 51 secondi. Sembra un viaggio in un girone dantesco, fatta di desolazione, drogati, condannati a morte, fanciulle traviate, orchi e bambini sconvolti. 
«Parla della morte... Non della "morte cicca", con le ossette, ma della morte psicologica, morale, mentale, che un uomo normale può incontrare durante la sua vita. Direi che una persona comune, ciascuno di noi forse, mentre vive si imbatte diverse volte in questo genere, in questo tipo di morte - in questi vari tipi, anzi, di morte - prima di arrivare a quella vera. Così, quando tu perdi un lavoro, quando tu perdi un amico, muori un po'; tant'è vero che devi un po' rinascere, dopo.»
Il viaggio è accompagnato dalle note di un'orchestra sinfonica diretta dai fratelli Reverberi e musicalmente è parte della nascite del progressive italiano, ma la formula scelta, come spiegò lo stesso De André, è quella classica della cantata "in cui tutti i brani sono uniti tra loro da intermezzi sinfonici e hanno come minimo comune denominatore quello di essere nella stessa tonalità, e di trattare lo stesso argomento"
I brani si susseguono senza pause, scanditi dagli "Intermezzi", in un crescendo che culmina nel "Recitativo" e si scioglie nel coro finale. Tra le tracce del disco la musica è ininterrotta senza mai un secondo di silenzio, solo La Ballata degli Impiccati e Girotondo finiscono sfumati con un attimo di silenzio prima del successivo. Gli ultimi due brani anzi sono intrecciati nel testo e le strefe dell'uno alternano quelle dell'altro. 
Demolendo a uno a uno tutti i cliché della canzone tradizionale italiana, De André corona con questo disco un'operazione ineguagliabile. Frantuma le convenzioni, denuncia l'ipocrisia e la vigliaccheria di quella stessa borghesia di cui ha sempre fatto parte.

1 - Cantico dei drogati (testo di F.De André e Riccardo Mannerini) - 7:06
2 - Primo intermezzo (testo di F.De André) - 1:57
3 - Leggenda di Natale (testo di F.De André) - 3:14
4 - Secondo intermezzo (testo di F.De André) - 1:56
5 - Ballata degli impiccati (testo di F.De André e Giuseppe Bentivoglio) - 4:22
6 - Inverno (testo di F.De André) - 4:10
7 - Girotondo (testo di F.De André) - 3:06
8 - Terzo intermezzo (testo di F.De André) - 2:12
9 - Recitativo (due invocazioni e un atto d'accusa) (testo di F.De André) - 0:47
10 - Corale (leggenda del re infelice) (testo di F.De André) - 4:48

Tutte le musiche sono di Fabrizio De André e Gian Piero Reverberi


Nel 1969 Antonio Casetta ebbe l'idea di realizzare una versione in inglese di questo disco: De André quindi reincise le parti vocali dell'album. Questa versione non è mai stata pubblicata ufficialmente, ma si giunse fino alla stampa di un'unica copia test in vinile. La grafica era completamente differente dalla versione italiana, con copertina apribile, tutti i testi delle canzoni in inglese e l'elenco di tutti i nomi dei musicisti.

La scaletta del disco era la seguente:
- Lament of the Junkie
- First Intermezzo
- Legend of Christmas
- Second Intermezzo
- Ballad of the Hanged
- Winter
- Ring Around the H-Bomb
- Third Intermezzo
- Relativity (Chorale of Mercy)


L'unica preziosa copia di questa versione è stata scoperta nel 2007 in possesso di un collezionista statunitense, che ha posseduto la versione per quasi 40 anni senza riferirlo a nessuno. Solamente in occasione del suo ottantesimo compleanno rivelò il segreto in forma privata al collezionista Mimmo Carrata, al quale poi cedette il disco pochi giorni dopo.








Qui il video in cui cerco di interpretare maldestramente l'intero album



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Una Vita e Mezza è un libro che parla soprattutto dell’assenza. O meglio della ricerca, tanto demotivata quanto inconsapevole, di come si può costruire una ciambella salvagente intorno a quel buco che ti si crea dentro quando perdi una persona. Cosicché quel buco, che risucchiava tutto il presente privandolo di senso, possa trasformarsi nel nostro galleggiante. E addirittura salvarci, traghettandoci verso il futuro.
È la storia di un viaggio, metaforico quanto reale, di un ragazzo che è stufo del suo galleggiare, ma che non sa dare una scossa alla propria esistenza. Così parte fidandosi e affidandosi al suo amico, sperando che qualcosa di imprevisto lo colga per assaporare un po’ di brivido della vita.
Riuscirà a trasformare il suo futuro innamorandosene anziché rimanendone schiacciato e afflitto?
Se c’è un’intenzione mirata in tutto ciò, è la creazione del neologismo che indica il dolore per il futuro mancante, la mellontalgia. In contrapposizione con la nostalgia, che indica l’afflizione per il ritorno a casa (nostos), per il passato, per l’infanzia, questa è l’afflizione per to mellon cioè l’avvenire o le cose future, in greco antico. Vuole indicare un dolore attribuito al futuro negato e non vissuto. A ciò che poteva essere e invece non sarà mai. Chissà se se ne sentiva la mancanza.