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Ballata degli Impiccati






la "Ballata Degli Impiccati", ispirata dalla "Ballade des Pendus" di François Villon (il primo "poeta maledetto"). I versi di De André come sempre sono scarni, ruvidi, sarcastici e non cedono mai al sentimentalismo. Così, i condannati a morte, diventano creature mosse da puro rancore. La canzone si apre con le parole che danno nome all'intero disco, come a significare che qui siamo all'apice della morte. La morte fisica. Causata dagli altri uomini. In nome della giustizia.

Tutti morimmo a stento, 
ingoiando l'ultima voce, 
tirando calci al vento 
vedemmo sfumare la luce.
L'urlo travolse il sole, 
l'aria divenne stretta, 
cristalli di parole, 
l'ultima bestemmia detta.

Sono gli ultimi istanti di vita di un impiccato: muoiono tutti con difficoltà, con le ultime parole strozzate, mentre scalciano appesi. L'urlo strozzato e cristallizzato con la gola stretta dalla corda travolge finanche il sole. E le ultime parole, ovviamente sono bestemmie.

Prima che fosse finita 
ricordammo a chi vive ancora 
che il prezzo fu la vita 
per il male fatto in un'ora.
Poi scivolammo nel gelo 
di una morte senza abbandono, 
recitando l'antico credo 
di chi muore senza perdono.

nell'ultimo istante, con la nostra sola presenza penzonante, ricordiamo ai vivi che ci guardano che stiamo pagando con la pena di morte l'errore di un momento. Poi comincia ad arrivare il freddo che non ci ha mai abbandonato nella vita, il freddo che sente chi è solo e non perdonato.

Chi derise la nostra sconfitta 
e l'estrema vergogna ed il modo, 
soffocato da identica stretta 
impari a conoscere il nodo.
Chi la terra ci sparse sull'ossa 
e riprese tranquillo il cammino, 
giunga anch'egli stravolto alla fossa 
con la nebbia del primo mattino.
La donna che celò in un sorriso 
il disagio di darci memoria, 
ritrovi ogni notte sul viso 
un insulto del tempo e una scoria.
Coltiviamo per tutti un rancore 
che ha l'odore del sangue rappreso, 
ciò che allora chiamammo dolore 
è soltanto un discorso sospeso.

Infine augura la medesima fine sua a chi si compiace della sua morte. A chi ci prende in giro perché ci hanno condannati, la vergogna di penzolare in pubblico, possa imparare a conoscere questo nodo stretto al collo a sue spese. Chi ci ha coperti di terra seppellendoci rimanendo tranquillo, possa morire a sua volta nell'ombra senza essere ricordato. La donna che ha sorriso alla nostra disgrazia e ci ha negato la memoria, possa svegliarsi ogni giorno col viso più segnato dalle ingiustizie della vita. L'impiccato ha rancore per tutti, odia tutti, è furente. Un rancore che ha l'odore del sangue secco su una ferita. E con ciò che a noi ha fatto male, l'assenza di pietà e perdono, è qualcosa che prima o poi proveranno tutti.





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il mio romanzo

Una vita e mezza
Una Vita e Mezza è un libro che parla soprattutto dell’assenza. O meglio della ricerca, tanto demotivata quanto inconsapevole, di come si può costruire una ciambella salvagente intorno a quel buco che ti si crea dentro quando perdi una persona. Cosicché quel buco, che risucchiava tutto il presente privandolo di senso, possa trasformarsi nel nostro galleggiante. E addirittura salvarci, traghettandoci verso il futuro.
È la storia di un viaggio, metaforico quanto reale, di un ragazzo che è stufo del suo galleggiare, ma che non sa dare una scossa alla propria esistenza. Così parte fidandosi e affidandosi al suo amico, sperando che qualcosa di imprevisto lo colga per assaporare un po’ di brivido della vita.
Riuscirà a trasformare il suo futuro innamorandosene anziché rimanendone schiacciato e afflitto?
Se c’è un’intenzione mirata in tutto ciò, è la creazione del neologismo che indica il dolore per il futuro mancante, la mellontalgia. In contrapposizione con la nostalgia, che indica l’afflizione per il ritorno a casa (nostos), per il passato, per l’infanzia, questa è l’afflizione per to mellon cioè l’avvenire o le cose future, in greco antico. Vuole indicare un dolore attribuito al futuro negato e non vissuto. A ciò che poteva essere e invece non sarà mai. Chissà se se ne sentiva la mancanza.