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Gli inizi, le esperienze condivise, l'uomo

De André nel ricordo di Paolo Villaggio

Non è cosa semplicissima intervistare Paolo Villaggio. Innanzitutto bisogna ottenere l’intervista. Per fortuna su un argomento, anzi su una persona, un amico, come Fabrizio De Andrè è sempre disponibile a parlare. Poi è necessario attivare tutta l’intelligenza di cui si dispone per comprendere, selezionare e distinguere quello che Villaggio dice, vuol dire, rievoca, allude. L’ironia di cui è dotato il comico genovese è tanta e tale che la “resistenza” del povero giornalista (il giornalista è sempre, nel bene e nel male, povero) è messa a dura prova e non si riesce mai a capire dove finisce lo scherzo, lo scherno, lo schermo, e dove inizia la verità, se una verità esiste.
A “migliorare” la mia condizione, mentre l’attore genovese parla sonnecchioso e burbero nel salotto della sua casa romana piena di libri su Fellini e sulla storia italiana e di diverse edizioni del Corano messe in bella mostra, alcuni grossi cani labrador mi circondano, mi annusano e mi stringono sospettosi (o forse affettuosi, ma non riesco ad apprezzare la differenza) ed io rischio di fare la fine di quei personaggi, Fracchia o Fantozzi non ricordo più, che in quei vecchi film se la dovevano vedere con alani infernali generalmente chiamate Ivan il Terribile, Attila o giù di lì.
Per fortuna la tensione si scioglie al nominar soltanto il nome di De Andrè…

Villaggio: Io ho conosciuto De Andrè come poche persone. E sono inviperito per questa tendenza che esiste soprattutto in Italia (forse per le sue radici cattoliche) di riconoscere i meriti delle persone e celebrarle solo dopo la morte. Come se la morte nobilitasse. Appena Fabrizio è morto, ed è morto abbastanza giovane, tutti si sono accorti che non era uno strimpellatore, ma un vero cantautore, un autentico poeta a tutto tondo. Io penso che se Fabrizio avesse cantato in inglese o in francese sarebbe stato una star internazionale.

Domanda: Come nasce questo suo rapporto così stretto con De Andrè?

Risposta: Ho conosciuto e frequentato Fabrizio da quando aveva quattro anni e l’ho perso di vista quando è morto. I nostri genitori erano molto amici; genovesi, di buona famiglia, si andava tutte le estati a Pocol sopra Cortina dove c’era una colonia di genovesi. C’eravamo io e mio fratello gemello Piero, il compagno di banco di mio fratello, Paolo Fresco, oggi presidente della Fiat, Mauro De Andrè, fratello di Fabrizio e Fabrizio che era il più piccolo del gruppo. In particolare dal ’56 in poi è stato una frequentazione strettissima, per vent’anni ci siamo visti tutti i giorni. Fabrizio aveva una piccola banda musicale, chiamata The Crazy Cowboys and Sheriff One dove lui era lo sceriffo appunto. Facemmo una rivista goliardica in cui si esibiva con la chitarra. Poi facemmo delle crociere a bordo della Federico C. dove io facevo l’intrattenitore e lui guidava l’orchestra di prima classe. Eravamo tutti genovesi, tranne il pianista che era milanese, bravo, cantava pure…poi è diventato Presidente del Consiglio.

R. In queste primissime esperienze c’era già il cantautore che noi tutti conosciamo?

D. C’era già, per esempio, la sua attenzione verso il patrimonio folk italiano. Solo che all’epoca l’approccio era dissacratorio. Ricordo che quasi ogni sabato andavamo vicino a Savona, ad Albissola. Lì c’era una specie di teatro, Il pozzo della garritta, che riuniva un gran numero di “artisti” se così si può dire. C’erano poeti, scenografi, drammaturghi… in alcuni casi persone di grande valore; noi ci andavamo a titolo di artisti o di aspiranti artisti. Fabrizio faceva l’orchestra e io il menestrello. Avevamo composto insieme un certo numero di canzoni, molto divertenti, finte canzoni folk per lo più o finte canzoni della resistenza. Ricordo una canzone popolare della Val d’Aosta, oppure ‘U Gennargentu, tutte finte ovviamente. Lui cantava queste cose ed io traducevo per il pubblico… ci divertivamo da matti. Tutto all’insegna dell’improvvisazione più totale e delirante.

D. Fu in quel periodo che scriveste insieme la canzone su Carlo Martello?

R. No quello venne dopo e la scelta dell’ambientazione medioevale fu tutta farina del mio sacco; Fabrizio ci mise solo la musica. Cioè avvenne il contrario, lui aveva già la musica ed io ci misi le parole. Fu così: era una giornata di pioggia del novembre del 1962 io e Fabrizio, a Genova a casa mia in via Bovio, eravamo tutti e due in attesa del parto delle nostre signore, che poi partorirono lo stesso giorno, infatti Cristiano e il mio Pierfrancesco sono “gemelli”. Ebbene, forse per distrarci o per passare il tempo, Fabrizio con la chitarra mi fece ascoltare una melodia, una specie di inno da corno inglese e io, che sono di una cultura immensa, cioè in realtà sono maniaco di storia, ho pensato subito di scrivere le parole ispirandomi a Carlo Martello re dei Franchi che torna dalla battaglia di Poitiers, un episodio dell’ottavo secolo d.C., tra i più importanti della storia europea visto che quella battaglia servì a fermare l’avanzata, fino ad allora inarrestabile, dell’Islam. Erano arrivati fino a Parigi, senza Carlo Martello sarebbe stata diversa la storia dell’Europa. Comunque mi piaceva quella vicenda e la volli raccontare, ovviamente parodiandola. In una settimana scrissi le parole di questa presa in giro del povero Carlo Martello.

D. Che poi fu inserita nel primo album di De Andrè. Che effetto ebbe quella canzone così particolare?

R. La canzone passò abbastanza inosservata, Fabrizio ancora non aveva inciso La canzone di Marinella e non era quindi famoso, tantomeno io. Qualcuno però notò questa strana filastrocca che sbeffeggiava il potente Re dei Franchi: fu un pretore, mi pare di Catania, che ci querelò perché la considerava immorale soprattutto per quel verso: “E’ mai possibile, o porco di un cane, che le avventure in codesto reame debban risolversi tutte con grandi p….”. E pensare che noi eravamo già stati censurati e avevamo dovuto trasformare il verso finale che in originale suonava: “frustando il cavallo come un mulo, quella gran faccia da c...” con: “frustando il cavallo come un ciuco, tra il glicine e il sambuco…”. Ma a parte questo pretore nessuno notò la nostra canzone che fu riscoperta quando Fabrizio divenne famoso dopo Marinella.

D. De Andrè soffriva di non essere molto considerato, affermato?

R. Come tutti. Il punto è che, per di più, in vita Fabrizio non solo non era molto considerato ma era considerato male. La stessa famiglia lo considerava un “deviato”. Il fratello Mauro lo vedeva come uno sbandato, uno che non ce l’avrebbe fatto nella vita. Al punto che lui stesso si era convinto di avere una certa incapacità a vivere e si era molto chiuso vivendo in modo “bloccato”; pensi che non si era nemmeno preso la patente. Era quindi logico che, per esempio, non volesse fare concerti in pubblico, anche quando era già diventato abbastanza famoso. Ricordo che ci rompeva giorno e notte con questa fobia: “io non canto, non canto, non canto in pubblico” e in realtà ne aveva una voglia matta. Una sera alla Bussola l’organizzatore aveva chiesto a Fabrizio di esibirsi, ma Fabrizio si era impuntato al punto che, io e Marco Ferreri lo abbiamo dovuto prendere di peso e spingere praticamente sul palco. La Bussola era strapiena di ragazzi. Era il periodo di Via del Campo, del Pescatore, di Marinella…. Le canzoni più famose ma forse le meno importanti.

D. In che senso le meno importanti?

R. Ritengo che queste siano state le ultime, da Creuza de ma in poi. Poeticamente Fabrizio è sempre stato grande ma questa sono formidabili sia dal punto di vista poetico e letterario che sotto il profilo musicale. Anzi la ricerca musicale, con il recupero di antichi strumenti, aveva raggiunto grandi livelli proprio in quegli ultimi dischi.

Mentre Villaggio parlava del rifiuto, anche in famiglia, del “deviato” De Andrè, ho notato una particolare vibrazione nelle sue parole, come se stesse parlando di fatti autobiografici. Crudelmente (come ogni giornalista) mi soffermo su questa “breccia” e gli chiedo di parlarmi dell’uomo De Andrè, se è vero che era poi una persona così seria e scostante…

R. Per niente. Gli hanno appioppato questa immagine dell’uomo serio per via del suo volto un po’ ombroso ma era una cosa del tutto infondata. Era invece molto simpatico e intelligente. Era un tipo “programmato”, “pianificato”, nel senso che, per esempio, diceva di non essere snob, ma lo era molto. Era in fondo una delizia di persona. Ma era anche uno scatenato, un perdinotte. Non riusciva ad andare a dormire, anche perché era ansioso, prima delle cinque del mattino e quando andava a letto si bardava con tappi alle orecchie, maschera sugli occhi, le finestre sigillate e fino alle tre del pomeriggio non si riusciva a stanarlo. Al punto che io ero costretto con un suo amico ad entrare nella stanza, aprire le finestre, far cadere una decina di pentole, sparare un colpo con la doppietta dalla finestra e, solo allora, lo sentivi bofonchiare insulti contro di noi “vigliacchi” che lo svegliavamo. Per tutti questi comportamenti era considerato un tipo curioso, squilibrato. Inoltre Fabrizio era uno che amava provocare. Ricordo che andava nelle cene dell’alta società, gli piaceva andarci, ma puntualmente ad un certo punto diventava offensivo, volgare, ghiacciando l’ambiente…era fatto così.

D. Quale fu l’impatto dell’esperienza del sequestro?

R. E’ stata l’esperienza più importante e lo sa perché? Perché è stato sequestrato non da solo ma con una donna, con Dori. Stare per quattro mesi incappucciato e legato col filo di ferro ad un olivo con una donna legata insieme a te… beh, se non ti forma quest’esperienza! Penso che Fabrizio forse non ce l’avrebbe fatta da solo, era troppo nevrotico. In Dori invece ha trovato un grande punto d’appoggio. E’ stata un’avventura terribile, drammatica ma che l’ha fato diventare adulto. Fabrizio è diventato grande grazie al sequestro. E la prova è nella canzone ispirata da questa esperienza, Hotel Supramonte, splendida, dove lui tenta di riscattare i suoi stessi carcerieri, come a dire: “anche quei banditi hanno condotto una vita terribile per quei quattro mesi, non mi parlavano mai, non mangiavano mai cose calde per paura di accendere un fuoco e quando mi davano da mangiare si dovevano incappucciare pure loro… eravamo tutti ostaggi, non solo io”. Formidabile, no? Questa canzone si inscrive nella sua linea di sempre, quella di riscattare i diseredati, gli ultimi. La fama di ribelle, rivoluzionario nasce da qui, ma è solo una parte della verità. Fabrizio, come me, faceva parte di una famiglia piccolo borghese di persone arriviste, rampanti e molto snob. Entrambi poi ci siamo giocati questa stessa carta di chi vuole difendere i poveracci, gli ultimi…
Fu una scelta spontanea, autentica, oppure una posa?
Tutte e due le cose. Del resto anche tutta la sinistra italiana è questa cosa qui. L’Italia è un paese provinciale, piccolo, basta vedere le prime alla Scala dove vanno tutti, anche Bertinotti.

A questo punto Villaggio mi fa capire che il tempo è scaduto. Mi accompagna alla porta, anche per tenere alla larga i suoi cagnoni, e mi confida la sua grande solitudine, quasi a volermi amaramente ringraziare di avergli fatto ricordare un suo vecchio amico. “Vede, con Fabrizio ho passato l’infanzia e la gioventù,” mi dice, “poi vent’anni con Gassman, altri venti con Tognazzi, poi Ferreri, Volontè, Fellini…Insomma… parlo solo “di” qualcuno, non “con” qualcuno…mah!”

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Una vita e mezza
Una Vita e Mezza è un libro che parla soprattutto dell’assenza. O meglio della ricerca, tanto demotivata quanto inconsapevole, di come si può costruire una ciambella salvagente intorno a quel buco che ti si crea dentro quando perdi una persona. Cosicché quel buco, che risucchiava tutto il presente privandolo di senso, possa trasformarsi nel nostro galleggiante. E addirittura salvarci, traghettandoci verso il futuro.
È la storia di un viaggio, metaforico quanto reale, di un ragazzo che è stufo del suo galleggiare, ma che non sa dare una scossa alla propria esistenza. Così parte fidandosi e affidandosi al suo amico, sperando che qualcosa di imprevisto lo colga per assaporare un po’ di brivido della vita.
Riuscirà a trasformare il suo futuro innamorandosene anziché rimanendone schiacciato e afflitto?
Se c’è un’intenzione mirata in tutto ciò, è la creazione del neologismo che indica il dolore per il futuro mancante, la mellontalgia. In contrapposizione con la nostalgia, che indica l’afflizione per il ritorno a casa (nostos), per il passato, per l’infanzia, questa è l’afflizione per to mellon cioè l’avvenire o le cose future, in greco antico. Vuole indicare un dolore attribuito al futuro negato e non vissuto. A ciò che poteva essere e invece non sarà mai. Chissà se se ne sentiva la mancanza.