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Ave Maria







Infine Maria diventa madre. Il momento è arrivato. In poco più di 100 secondi De André compie un inno alla maternità davvero difficile da descrivere con altre parole che non siano le sue. 

E te ne vai, Maria, fra l'altra gente
che si raccoglie intorno al tuo passare,
siepe di sguardi che non fanno male
nella stagione di essere madre.

Qui è semplicemente Maria che cammina tra la gente che le si raccoglie accanto e la lascia passare come si deve ad una donna incinta in prossimità del parto. Adesso tutti la guardano, ma non con la cattiveria di quando era impura nel tempio. Semplicemente perché è veramente prossima al parto e colma d’amore, potremmo immaginarla che in questo momento si sono proprio aperte le acque.

Sai che fra un'ora forse piangerai
poi la tua mano nasconderà un sorriso
gioia e dolore hanno il confine incerto
nella stagione che illumina il viso.

Maria sa che entro un’ora sarà madre, partorirà e probabilmente piangerà. Poi nella sua mano terrà tutto il suo piccolo pargolo appena nato. Gioia e dolore, come in ogni parto, hanno un confine incerto. Sicuramente è un dolore immenso per il corpo ma è una gioia smisurata per lo spirito e illumina il viso. 

Ave Maria, adesso che sei donna,
ave alle donne come te, Maria,
femmine un giorno per un nuovo amore
povero o ricco, umile o Messia.

Maria viene salutata come una madre, finalmente ha partorito. Adesso viene riconosciuta come donna è non è più bambina. Adesso ha un nuovo amore, come tutte le donne, che sia povero o ricco, l’ultimo o il primo, ogni figlio è un nuovo amore per la madre. Che sia Messia o no. 

Femmine un giorno e poi madri per sempre
nella stagione che stagioni non sente..


E non sarà mai più una bambina. Per tutta la vita, si rimane madre, non si smette mai. Neanche con un nuovo figlio muta l’essere madre del primo. Nemmeno con la morte del figlio, quando non ci sono più stagioni, cambia la condizione dell’essere madri e di amare in questo modo.








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il mio romanzo

Una vita e mezza
Una Vita e Mezza è un libro che parla soprattutto dell’assenza. O meglio della ricerca, tanto demotivata quanto inconsapevole, di come si può costruire una ciambella salvagente intorno a quel buco che ti si crea dentro quando perdi una persona. Cosicché quel buco, che risucchiava tutto il presente privandolo di senso, possa trasformarsi nel nostro galleggiante. E addirittura salvarci, traghettandoci verso il futuro.
È la storia di un viaggio, metaforico quanto reale, di un ragazzo che è stufo del suo galleggiare, ma che non sa dare una scossa alla propria esistenza. Così parte fidandosi e affidandosi al suo amico, sperando che qualcosa di imprevisto lo colga per assaporare un po’ di brivido della vita.
Riuscirà a trasformare il suo futuro innamorandosene anziché rimanendone schiacciato e afflitto?
Se c’è un’intenzione mirata in tutto ciò, è la creazione del neologismo che indica il dolore per il futuro mancante, la mellontalgia. In contrapposizione con la nostalgia, che indica l’afflizione per il ritorno a casa (nostos), per il passato, per l’infanzia, questa è l’afflizione per to mellon cioè l’avvenire o le cose future, in greco antico. Vuole indicare un dolore attribuito al futuro negato e non vissuto. A ciò che poteva essere e invece non sarà mai. Chissà se se ne sentiva la mancanza.