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Il Testamento di Tito







Ma prima della fine con la canzone che chiude l’album riprendendo il tema iniziale (in cui come vedremo c’è il verso che dà senso all’intera opera), c’è tempo per la ciliegia sulla torta più buona che un cantautore abbia mai pensato. Basterebbe da sola una canzone come “Il Testamento Di Tito” per assicurare a qualsiasi album un posto nella storia: il punto di vista è quello del ladrone morente accanto a Gesù, che  lancia uno dei messaggi più etici e umani di sempre, dal valore ineguagliabile. Passando in rassegna i dieci comandamenti, li smonta uno ad uno con esempi pratici del suo vissuto. Le leggi sono aride e senza umanità, violente per definizione. Scritte per chi il potere ce l’ha, per chi può. E chi non può, per condizione sfortunata ed esigenza, è fuorilegge. E Gesù è lì inchiodato senza giustizia e senza perdono. 

"Non avrai altro Dio all'infuori di me,
spesso mi ha fatto pensare:
genti diverse venute dall'est dicevan che in fondo era uguale. Credevano a un altro diverso da te e non mi hanno fatto del male.

Non nominare il nome di Dio, non nominarlo invano.
Con un coltello piantato nel fianco gridai la mia pena e il suo nome: ma forse era stanco, forse troppo occupato, e non ascoltò il mio dolore. Ma forse era stanco, forse troppo lontano, davvero lo nominai invano.

Onora il padre, onora la madre
e onora anche il loro bastone. Bacia la mano che ruppe il tuo naso perché le chiedevi un boccone: quando a mio padre si fermò il cuore non ho provato dolore.

Ricorda di santificare le feste.
Facile per noi ladroni entrare nei templi che rigurgitan salmi, di schiavi e dei loro padroni, senza finire legati agli altari sgozzati come animali.

Il quinto dice non devi rubare
e forse io l'ho rispettato vuotando, in silenzio, le tasche già gonfie di quelli che avevan rubato: ma io, senza legge, rubai in nome mio, quegli altri nel nome di Dio.

Non commettere atti che non siano puri
cioè non disperdere il seme. Feconda una donna ogni volta che l'ami così sarai uomo di fede: Poi la voglia svanisce e il figlio rimane e tanti ne uccide la fame. Io, forse, ho confuso il piacere e l'amore: ma non ho creato dolore.

Il settimo dice non ammazzare
se del cielo vuoi essere degno. Guardatela oggi, questa legge di Dio, tre volte inchiodata nel legno: guardate la fine di quel nazzareno e un ladro non muore di meno.

Non dire falsa testimonianza
e aiutali a uccidere un uomo. Lo sanno a memoria il diritto divino, e scordano sempre il perdono: ho spergiurato su Dio e sul mio onore e no, non ne provo dolore.

Non desiderare la roba degli altri, non desiderarne la sposa.
Ditelo a quelli, chiedetelo ai pochi che hanno una donna e qualcosa: nei letti degli altri già caldi d'amore non ho provato dolore.

L'invidia di ieri non è già finita: stasera vi invidio la vita.
Ma adesso che viene la sera ed il buio, mi toglie il dolore dagli occhi e scivola il sole al di là delle dune a violentare altre notti: 
io nel vedere quest'uomo che muore, madre, io provo dolore.

Nella pietà che non cede al rancore, madre, ho imparato l'amore".

Forse è proprio questo il senso dell’opera deandreiana, in cui significativamente Cristo non ha pronunciato una sola parola: la grandezza di questa “buona novella” non viene dalle parabole e dalle promesse di eternità dell’anima, ma dai fatti concreti della vita di Cristo, da una condotta umana che qui ci giunge riflessa dalle parole di Tito. Non servono i 10 comandamenti: “La Buona Novella” è un modo diverso di essere uomini, si può essere beati anche in questo mondo, purchè in ciascuno esista il sentimento di pietà e umana partecipazione al dolore degli altri. Cristo inventa il sentimento della pietà come noi oggi lo intendiamo.

Questo è certamente uno dei pezzi in cui De Andrè riesce ad esprimere meglio tutta la sua spiritualità, il suo umanesimo e il suo anarchismo. L’amore, il non giudicare sommariamente, il perdonare.




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il mio romanzo

Una vita e mezza
Una Vita e Mezza è un libro che parla soprattutto dell’assenza. O meglio della ricerca, tanto demotivata quanto inconsapevole, di come si può costruire una ciambella salvagente intorno a quel buco che ti si crea dentro quando perdi una persona. Cosicché quel buco, che risucchiava tutto il presente privandolo di senso, possa trasformarsi nel nostro galleggiante. E addirittura salvarci, traghettandoci verso il futuro.
È la storia di un viaggio, metaforico quanto reale, di un ragazzo che è stufo del suo galleggiare, ma che non sa dare una scossa alla propria esistenza. Così parte fidandosi e affidandosi al suo amico, sperando che qualcosa di imprevisto lo colga per assaporare un po’ di brivido della vita.
Riuscirà a trasformare il suo futuro innamorandosene anziché rimanendone schiacciato e afflitto?
Se c’è un’intenzione mirata in tutto ciò, è la creazione del neologismo che indica il dolore per il futuro mancante, la mellontalgia. In contrapposizione con la nostalgia, che indica l’afflizione per il ritorno a casa (nostos), per il passato, per l’infanzia, questa è l’afflizione per to mellon cioè l’avvenire o le cose future, in greco antico. Vuole indicare un dolore attribuito al futuro negato e non vissuto. A ciò che poteva essere e invece non sarà mai. Chissà se se ne sentiva la mancanza.