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Tre Madri







Non appena i tre condannati vengono crocifissi, le loro rispettive Tre Madri stanno adagiate sotto le croci per confortarli. Tutti gli altri spariscono dalla scena e rimangono solo queste Tre Madri: Maria la madre di Gesù, quella di Dimaco e quella di Tito, i due ladroni. 

"Tito, non sei figlio di Dio
Ma c'è chi muore nel dirti addio"
"Dimaco, ignori chi fu tuo padre
Ma più di te muore tua madre"
"Con troppe lacrime piangi, Maria
Solo l'immagine d'un'agonia
Sai che alla vita, nel terzo giorno
Il figlio tuo farà ritorno
Lascia noi piangere, un po' più forte
Chi non risorgerà più dalla morte"

Già l’idea di far incontrare le tre madri dei condannati a morte e aprire il Golgota ad altre figure che non sono lì per Cristo, è uno spaccato di umanità incredibile. E’ la madre di Tito a cominciare il cordoglio. Non sei figlio di Dio, ma tua madre è qui che muore nel dirti l'ultimo addio. Dimaco invece non sa nemmeno chi fu il padre, ma certamente la madre è lì sotto a piangere il figlio. Maria piange troppo per le mamme dei due ladri. Sembra che vogliano quasi metterla in un angolo, dal momento che il dolore di lei durerà soltanto tre giorni, dal momento che poi Cristo risorgerà. Mentre il loro dolore sarà per tutta la vita di madri, per sempre. 

"Piango di lui ciò che mi è tolto
Le braccia magre, la fronte, il volto
Ogni sua vita che vive ancora
Che vedo spegnersi ora per ora.
Figlio nel sangue, figlio nel cuore
E chi ti chiama, Nostro Signore
Nella fatica del tuo sorriso
Cerca un ritaglio di Paradiso
Per me sei figlio, vita morente
Ti portò cieco questo mio ventre
Come nel grembo, e adesso in croce
Ti chiama amore questa mia voce

E Maria risponde loro facendo emergere tutta la sua umanità di madre. Piange la carne del figlio, piange ogni ora di sofferenza che lo accompagna alla morte. Piange il fatto che è suo figlio di sangue e di cuore, che non è uguale a quello di chi lo chiama Nostro Signore e cerca di guadagnarsi con la fede uno posto in paradiso. Per lei è semplicemente suo figlio, vita morente. Continuerà a chiamarlo “amore” adesso in che è in croce così come quando lo portava in grembo. 

Non fossi stato figlio di Dio
T'avrei ancora per figlio mio"


E infine si rivela tutto lo strazio della madre, condannata a portare in grembo il figlio di Dio, destinato a soffrire per salvare tutti gli altri figli di tutte le altre donne: non fossi stato figlio di Dio e non fossi dovuto morire in croce, adesso ti avrei ancora vivo come mio semplice figlio.




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il mio romanzo

Una vita e mezza
Una Vita e Mezza è un libro che parla soprattutto dell’assenza. O meglio della ricerca, tanto demotivata quanto inconsapevole, di come si può costruire una ciambella salvagente intorno a quel buco che ti si crea dentro quando perdi una persona. Cosicché quel buco, che risucchiava tutto il presente privandolo di senso, possa trasformarsi nel nostro galleggiante. E addirittura salvarci, traghettandoci verso il futuro.
È la storia di un viaggio, metaforico quanto reale, di un ragazzo che è stufo del suo galleggiare, ma che non sa dare una scossa alla propria esistenza. Così parte fidandosi e affidandosi al suo amico, sperando che qualcosa di imprevisto lo colga per assaporare un po’ di brivido della vita.
Riuscirà a trasformare il suo futuro innamorandosene anziché rimanendone schiacciato e afflitto?
Se c’è un’intenzione mirata in tutto ciò, è la creazione del neologismo che indica il dolore per il futuro mancante, la mellontalgia. In contrapposizione con la nostalgia, che indica l’afflizione per il ritorno a casa (nostos), per il passato, per l’infanzia, questa è l’afflizione per to mellon cioè l’avvenire o le cose future, in greco antico. Vuole indicare un dolore attribuito al futuro negato e non vissuto. A ciò che poteva essere e invece non sarà mai. Chissà se se ne sentiva la mancanza.