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Storie di uomini di nuvole e di cicale


Amato, amatissimo De André. Oppure detestato. Amato dal suo pubblico, che lo segue da 25 anni, e dai critici. Detestato da coloro che odiano quelle persone che non si tirano indietro quando si tratta di giocare duro con le parole. A sei anni dall'uscita del precedente LP, ecco Le nuvole, un disco che ti accarezza e, subito dopo, ti prende a schiaffi. Di lui si è scritto tanto: della sua pigrizia, della sua rabbia e della sua indiscussa genialità. Ecco cosa ci ha raccontato il cantautore più poetico e "feroce" dei nostri anni.

"Le nuvole arriva a sei anni di distanza dal precedente. Come sono cambiati i tuoi ritmi di lavoro e di vita?".

"I ritmi di lavoro non si sono dilatati se è vero che Le nuvole le abbiamo pensate, scritte e registrate nel giro di due anni. Sono stati piuttosto gli accadimenti della vita a lasciarmi poco spazio per le canzoni. D'altra parte non mi è mai successo di produrre ai ritmi di una gallina ovaiola e farò di tutto perché ciò continui a non accadere".

"Hanno scritto che Le nuvole è il più bel disco mai pubblicato in Italia, che è un capolavoro... Non ti imbarazzano questi giudizi?".

"Non mi sono mai ribellato al parere dei critici e tantomeno intendo farlo nel momento in cui la maggioranza di loro afferma che il mio nuovo album è un capolavoro. Che poi io ne sia altrettanto convinto è un altro paio di mie particolarissime maniche".

"Lo hanno anche definito un disco coraggioso. Sei d'accordo?".

"Il coraggio è un'altra faccenda e ognuno di noi spera di non dover essere mai costretto a esibirlo. Il mio è soltanto un contributo minimo, quello che noi tutti dovremmo dare, nel segnalare, per quanto ci è possibile e nelle forme che ci sono usuali, tutti i pericoli grandi e piccoli che minacciano la nostra convivenza civile".

"Alcune fra le tue canzoni prendono spunto dalla cronaca, e Don Raffae' e La domenica delle salme ne sono un esempio. Immagini e parole per raccontare delle vicende, come facevano i cantastorie. Ti riconosci nella definizione di cantastorie?".

"Nel caso di alcune mie canzoni direi di sì, non dimenticando che i cantastorie, pur svisando la realtà, supplivano con la loro cronaca alla penuria di informazioni o alla loro totale mancanza. Di certi episodi del passato non avremmo neppure una memoria fantasiosa se non fossero stati fissati nelle loro note e nei loro versi. Oggi certamente non si tratta più di supplire, oggi la stampa esiste e in molti casi ci è suggeritrice: si tratta semplicemente di darle una mano".

"Qual è il tuo rapporto con i mass media? Guardi la TV? Quali giornali leggi?".

"Dal 1985 non mi perdo una telenovela. 'Solo i ricchi ruttano' ho dovuto abbandonarla alla trentacinquesima puntata per esaurimento delle lacrime. Scherzi a parte, continuo a preferire la lettura e anche per quanto riguarda l'informazione sono costretto a integrare le scarne notizie dei telegiornali con un paio di quotidiani e settimanali".

"Rabbia e malinconia sono due sentimenti che si sentono nelle tue composizioni. La cosiddetta ispirazione nasce per rabbia o malinconia?".

"Non mi sembra di aver scritto soltanto canzoni rabbiose o malinconiche; agisco sul materiale che ho sottomano e mi pare che nell'ultimo decennio il repertorio di cronaca non sia stato tra i più felici. Ma appena il tourbillon di avvenimenti drammatici di cui viviamo quotidianamente al centro dovesse darci un attimo di tregua, sono convinto che riuscirei a ritrovare attenzione ed emozione per i problemi minimali di Bocca di rosa e di Carlo Martello".

"Nelle tue canzoni ci sono molte rime. Da cosa nasce questa passione per le rime?".

"L'uso della rima o dell'assonanza, per quanto mi riguarda, nasce dal bisogno spontaneo di creare già nei versi un'unità armonica, un effetto sonoro autonomo e indipendente dalla melodia cantata. Ciò è particolarmente utile nel caso in cui di una canzone si voglia privilegiare il contenuto: le parole le cui sillabe siano assonanti o rimate contribuiscono a far rimanere i versi più impressi. Anche da questo punto di vista non faccio che seguire la tradizione dei cantastorie".

"'Voglio vivere in una città dove all'ora dell'aperitivo non ci siano spargimenti di sangue o di detersivo', dici in La domenica delle salme. Quali sono i luoghi dove vivi bene?".

"Dovunque si facciano prima di tutto dei doverosi 'distinguo' fra gli spargimenti di sangue e quelli di detersivo".

"Le nuvole non è un disco da ballare o da cantare, ma da ascoltare. Puoi dare qualche consiglio sull'ascolto? Come, quando e con chi?".

"Sul fatto che non siano canzoni da cantare ho i miei dubbi, soprattutto per alcune. Sul come, quando e con chi ascoltare il disco non ho nulla da suggerire; ognuno è libero di ascoltare e di non ascoltare, e se ascolta lo faccia come e con chi gli pare".

"Secondo la tua esperienza, il pubblico che compra i tuoi dischi oggi è lo stesso che apprezzava La canzone di Marinella e La guerra di Piero? E i ragazzi, quelli che forse non conoscono le tue vecchie composizioni, che cosa amano del De André di oggi?".

"Leggevo l'altro giorno una recente intervista di Octavio Paz, premio Nobel 1990 per la letteratura. Diceva che 'la nostra società ha elevato i numeri al ruolo di idoli'. Non ritengo di primaria importanza il numero delle copie vendute o quello degli ascoltatori, anche se non dimentico di vivere con questo mestiere. Ritengo di primaria importanza che coloro che ascolteranno siano stimolati da una maggiore attenzione ai problemi sociali del momento in cui viviamo, perché l'eventuale soluzione di quei problemi riguarda anche me. Per quanto concerne il tipo di pubblico, penso che l'interesse raccolto dalla Guerra di Piero negli anni Sessanta non dovrebbe discostarsi molto da quello che susciterà La domenica delle salme negli anni Novanta. Si tratta pur sempre di critica sociale e non esistono stagioni che ti consentano di astenerti, di disinteressarti della società in cui vivi. Da un punto di vista formale, può darsi che larga parte dei giovani non sia attratta da questo tipo di musica, da questo tipo di confezione canzonettistica. D'altra parte io ho 50 anni e, pur apprezzandolo, non riesco a fare dell'heavy metal".

"C'è un filo che unisce le canzoni di questo disco? Che cosa sono Le nuvole che danno il titolo all'album?".

"Queste nuvole non sono da intendersi come fenomeni atmosferici: queste nuvole sono quei personaggi ingombranti e dannosi della nostra vita civile, politica ed economica che io cerco di descrivere, insieme ad alcune loro vittime, nella prima parte dell'album: sono i personaggi che detengono il potere con tutta la loro arroganza e i loro cattivi esempi. I protagonisti della seconda parte sono invece i figli del popolo i quali, nella misura in cui è loro consentito dai potenti descritti nella prima parte, continuano tranquillamente a farsi i fatti loro, rinunciando a quella protesta, a quella indignazione collettiva di fronte al malgoverno, indignazione e protesta che io ritengo le condizioni irrinunciabili per non rischiarci la democrazia. Il coro di cicale che chiude la prima parte del disco, e al quale io stesso mi unisco, sta appunto a significare come tali nostre proteste e indignazioni stiano sempre più assumendo il sapore di un vago e rassegnato cicaleccio".

A.Podestà - Tv sorrisi e canzoni 1990

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il mio romanzo

Una vita e mezza
Una Vita e Mezza è un libro che parla soprattutto dell’assenza. O meglio della ricerca, tanto demotivata quanto inconsapevole, di come si può costruire una ciambella salvagente intorno a quel buco che ti si crea dentro quando perdi una persona. Cosicché quel buco, che risucchiava tutto il presente privandolo di senso, possa trasformarsi nel nostro galleggiante. E addirittura salvarci, traghettandoci verso il futuro.
È la storia di un viaggio, metaforico quanto reale, di un ragazzo che è stufo del suo galleggiare, ma che non sa dare una scossa alla propria esistenza. Così parte fidandosi e affidandosi al suo amico, sperando che qualcosa di imprevisto lo colga per assaporare un po’ di brivido della vita.
Riuscirà a trasformare il suo futuro innamorandosene anziché rimanendone schiacciato e afflitto?
Se c’è un’intenzione mirata in tutto ciò, è la creazione del neologismo che indica il dolore per il futuro mancante, la mellontalgia. In contrapposizione con la nostalgia, che indica l’afflizione per il ritorno a casa (nostos), per il passato, per l’infanzia, questa è l’afflizione per to mellon cioè l’avvenire o le cose future, in greco antico. Vuole indicare un dolore attribuito al futuro negato e non vissuto. A ciò che poteva essere e invece non sarà mai. Chissà se se ne sentiva la mancanza.